PER LEGGERE UN ARTICOLO OGGETTIVO SU LA RUSSIA, CI PENSA "FAMIGLIA CRISTIANA"

I MORTI RUSSI MUOIONO SEMPRE UN PO' MENO
05/11/2015  Per una settimana circa i media occidentali, a proposito dell'aereo russo caduto sul Sinai, hanno rimosso l'ipotesi dell'attentato dell'Isis. Perché? E perché non riconoscere che la Russia è un partner importante nella lotta al terrorismo islamista?

A San Pietroburgo, il cordoglio per le vittime dell'aereo russo abbattuto sul Siinai (Reuters).

Per una settimana quasi tutti i media occidentali, ritrosi come giovinette, han fatto di tutto per non parlare di terrorismo islamico. Anche se c'era la rivendicazione dell'Isis. Anche se le compagnie aeree (fatto significativo: per prime quelle delle monarchie del Golfo) annunciavano di aver sospeso i voli su quella rotta. Anche se i voli russi verso le spiagge dell'Egitto sono frequentissimi e non si era mai avuto notizia di problemi o incidenti.

Poi è arrivato il via libera americano: 
è stata una bomba, hanno detto i servizi segreti Usa, a far precipitare sul Sinai il jet con 224 turisti russi a bordo. Annuncio accompagnato da altre rinunce: inglesi e irlandesi hanno smesso di volare su quei cieli, e anche Easyjet si è tirata indietro. A quel punto, persino la libera stampa del mondo libero si è fatta avanti: forse è stato un attentato, dicono i giornali. Bravi, sette più.

E' un procedimento che non deve stupire. Anzi, è una vecchia storia. 
Risale alla seconda metà degli anni Novanta, dopo la prima guerra di Cecenia (1994-1996), quando il fronte degli indipendentisti guidato da Dzhokar Dudaev cominciò a essere infiltrato sempre più pesantemente dagli islamisti, già allora finanziati (quasi ogni giorno si apriva una nuova moschea) e organizzata (alcuni dei capi guerriglieri, peraltro in conflitto perenne con i capi locali, erano sauditi o giordani) dall'Arabia Saudita, e naturalmente favoriti e motivati dalla brutalità e dalle violenze dell'esercito russo.

Quando osservo i video dei boia dell'Isis mi capita di pensare alle esecuzioni sommarie, da parte dei ceceni, dei soldati catturati in battaglia, e soprattutto
 al caso di Evgenyj Rodionov e Andrej Trusov, due soldati semplici russi catturati in territorio ceceno e decapitati con regolare filmato, mentre due altri loro commilitoni venivano semplicemente fucilati. Per Rodionov, assassinato nel giorno del suo ventesimo compleanno, pende in Russia una "causa di santità" perché in punto di morte il soldato rifiutò di abiurare la fede cristiana e convertirsi all'islam.

I guerriglieri ceceni, come tutti ricordano, giusta o sbagliata che fosse la loro causa,
 compivano azioni degne del peggiore terrorismo: attaccavano gli ospedali civili (a Budionnovsk), massacravano gli studenti nelle scuole (a Beslan), prendevano in ostaggio gli spettatori nei teatri (a Mosca). I loro capi, intanto, sognavano la creazione di un califfato del Caucaso, almeno quindici anni prima che Al Baghdadi sognasse di crearne un altro tra Siria e Iraq.

Nonostante tutto questo, e molto altro che si potrebbe dire, il mondo occidentale si è sempre rifiutato di riconoscere che la Russia si era trovata (e in parte si trova ancora) a combattere con il terrorismo islamico. I ceceni erano di volta in volta "indipendentisti", "ribelli", "guerriglieri", "combattenti". Tutto tranne che "terroristi islamici", qualifica che col tempo abbiamo attribuito quasi a chiunque impugnasse un'arma.

La ragione è evidente: delegittimare la Russia, toglierle qualunque forma di riconoscimento internazionale, negare fino al ridicolo che potesse/possa avere un ruolo all'interno di una battaglia comune con l'Occidente. Ovvero,
 lasciare mano libera agli Usa in quella sorta di perenne e crudele esperimento sociologico che conducono in Medio Oriente e che, da George Bush a Obama, ha un unico esito: frammentare dove c'era unità (Iraq, Siria, Libia...), impoverire dove c'era un decente tenore di vita, rendere ancora più netti i contrasti tra religioni, etnie, popoli. Questa è la politica che, tra l'altro, rischia di portare all'estinzione le comunità cristiane del Medio Oriente. Comunità che, tra le altre cose, facevano da collante culturale e sociale a quei Paesi prima in qualche modo uniti e ora avviati verso una divisione di fatto (Iraq, Libia) o addirittura perseguita e auspicata come in Siria.

OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI, CON UNA SUA POESIA DEL 1961.




Oggi parliamo di Pasolini, e della poesia Alla mia nazione (da La religione del mio tempo, 1961):

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Fa parte della sezione Nuovi epigrammi (1958-1959), ed è una poesia che rischia forse, nel suo essere diventata per certi versi alla moda, di scadere a frame dell’indignazione, perdendo la dimensione letteraria. Quasi che il  citarla o il condividerla via blog o social network  esaurisca l’attività politica o culturale. Cerchiamo allora di vederne alcune peculiarità.
C’è una grande assente in questa poesia, ed è la parola «Italia», sostituita da «nazione». Pasolini sceglie dunque un tema vivo della tradizione letteraria, quello della propria patria – pensiamo per esempio a Italia mia, benché  ’l parlar sia indarno di Petrarca o All’Italia di Leopardi – ma lo fa senza il termine che più caratterizza il tema. Altra grande assente è per l’appunto la parola «patria», che esprime la propria terra come «terra dei padri». Pasolini inoltre ricorre all’epigramma, e non alla forma-canzone (come sarebbe più consono per una poesia civile), e dunque connota ancora di più la propria poesia come  «forza del passato», contrapposta al presente della «nazione». E la parola «nazione» dà al concetto di patria un senso legato al nascere, più che a un’appartenenza sviluppata e consolidata culturalmente.
Il poeta si rivolge perciò a chi è nato entro certi confini, e non tanto a chi, entro quei confini, ha maturato un senso condiviso di appartenenza («sei incosciente», verso 11). Ma solo dall’identità del poeta (dall’essere cioè Pasolini italiano) noi sappiamo che egli si sta rivolgendo all’Italia. E poiché non si riferisce a tratti universali, tale che questa poesia potrebbe valere come critica a qualunque nazione moderna, ma a tratti specifici (come ad esempio alla forte tradizione cattolica), l’assenza di parole come «Italia» e «patria» vale come un disconoscimento nel presente («sei esistita… non esisti», verso 12).
Questa sottrazione di parole tematiche e questo rifiuto verso la propria «nazione» lavorano in particolare nei primi due versi, in cui la «nazione» è espressa per ciò che non è («non… non… non… »), ricorrendo poi ad avversative da cui si dipana  il lungo elenco di figure e tratti miserabili.
Pasolini denuncia l’Italia borghese, il ceto allora dominante, e lo fa sul finire degli anni Cinquanta, ossia all’alba del boom economico, proprio quando la borghesia inizia la marcia trionfale nell’ebbrezza consumista. Possiamo dunque dire che Alla mia nazione è una poesia che non parla dell’Italia, come a una prima occhiata potrebbe far intendere: è una poesia che parla del rapporto disgustato tra il poeta e il ceto dominante dell’epoca, dominante in quanto massa (come nella forte immagine «Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci», verso 8). Dunque il poeta, nella tradizione che rappresenta, sente di non può accostare a una simile classe dominante la parola «Italia», disconoscendo la borghesia in quanto «patria». Sono figli senza padri degni di nota.
Lo stesso Pasolini, in Vie nuove, nel 1961 preciserà il concetto parlando dello scandalo prodotto da quella poesia nei fascisti:
I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia [Alla mia nazione] di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi – nei casi migliori – perché sono un poeta, cioè un matto. [...] Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante, benpensante, ipocrita e disumana.

Ecco dunque perché Alla mia nazione va letta al di là del significato solamente letterale di disprezzo, e soprattutto senza proiettare un proprio e generico sentimento di avversione verso la contemporaneità.